mercoledì 31 agosto 2005

“Uno in più”

commento al cortometraggio di Paolo Rossi e Alberto Gambato

Vorrei evitare di speculare sulla trama di questo “Uno in più”, anche perché mi pare che ci sia sollazzati abbastanza ieri sera, alla ricerca di una storia, più che di un significato: tre quarti dell’audience ha colto riferimenti all’aborto che io non avevo colto. E anche sull’idea che il bambino sia la causa della crisi di coppia nutro ancora qualche perplessità, innanzitutto perché rifiuto qualsiasi determinismo in questo campo, e poi perché ci sono teorie del senso comune che affermano l’esatto contrario, cioè che spesso è la crisi della coppia che porta a generare figli perché non c’è più nulla da generare.



A dire il vero rimane la domanda: ma questo bambino nascerà? Ho sentito parlare di aborto, ma la crisi non potrebbe nascere invece da una gravidanza mancata? Insomma, non ci voglio vedere la teoria pseudofemminista della donna fragile e in crisi e del maschio bruto che raschia le pentole come raschierebbe l’utero di sua moglie. E poi, che cazzo di uomo fa le parole crociate mentre la compagna abortisce? (Tutte queste domande giusto per creare confusione…)
Non ho apprezzato completamente l’idea di commentare subito il film. Per i miei tempi di elaborazione, mi servono almeno due visioni prima di farmi un’idea di quello che ho visto, e sentirmi “spiegare” delle cose ha interferito con la mia capacità di pormi delle domande. Comunque, due o tre cose sono rimaste lo stesso, e spero di riuscire a metterle giù con sufficiente chiarezza. Innanzitutto, per quanto riguarda questo ritornare dei problemi di relazione, valgono le mie considerazioni su Dopochi. L’apertura del corto, con Veronica che tenta di scrivere una lettera senza ottenere grandi risultati, è chiara: si parte dal problema di comunicare le cose. La differenza, forse cruciale, è che in Dopochi il fallimento della comunicazione avveniva nel contesto di un’interazione tra due persone, qui invece non c’è alcuna interazione. I protagonisti rimangono atomizzati: Veronica non riesce a scrivere la sua lettera, Franco si esprime attraverso uno scatto (di rabbia? Dolore? Frustrazione?) lontano dallo sguardo della donna. In realtà, ci sono tentativi di comunicazione da entrambe le parti, che ho trovato piuttosto fedeli alle maniere impacciate con cui si tenta di aprire un discorso in situazioni ostili: Veronica segnala la sua attività (prendo un po’ d’acqua), Franco produce rumore. Entrambi attirano l’attenzione dell’altro, segnalano la propria presenza. Come dire, aprono un canale di comunicazione. Forse il limite di questa comunicazione rimane sempre quello di cui parlavo commentando Dopochi: la mancata produzione di una sintesi.
La lettera di Veronica è una comunicazione unidirezionale. Entrambi affermano un Io (io ti scrivo questo, io bevo; io sto facendo rumore, io sono arrabbiato-triste-ecc.), ma non c’è traccia di un Noi, che significa innanzitutto interrogarsi sul Tu. Questo aspetto è sottolineato bene dalla regia. Il Noi (la compresenza dei protagonisti in una stessa inquadratura) c’è solo nei flashback. A mio avviso, il momento in cui il Noi si scinde (la crisi) è il momento in cui la mano di Veronica scaccia la mano di Franco. Da lì in poi comunicare diviene difficile come la camminata timorosa di Veronica attraverso il corridoio, verso Franco.
C’è un altro aspetto che sottolineerei, piuttosto tipico dei rapporti tra persone: se Veronica si getta nella scrittura in modo frenetico (direi istintivo, coi risultati che si vedono), Franco come si pone delle domande su ciò che sta accadendo? Mi ha colpito la presenza del cruciverba, che ritengo un ottimo modo per tenere la mente impegnata senza produrre niente. Ora, il cruciverba è il contrario della riflessione: propone domande a cui si risponde con una cultura nozionistica, superficiale. Non spinge a chiedersi il perché delle cose. La soluzione del cruciverba non include un contributo originale da parte tua. Alla fine del cruciverba, questa quantità di parole vuote di senso, che non ti appartengono, non producono alcun discorso, ma in compenso occupano ordinatamente spazi ben delimitati che si incastrano l’uno nell’altro in un ordine che dà un senso di conforto. Il risultato è che tu hai messo in moto il cervello al minimo di giri per non generare assolutamente
nulla che non fosse deciso da uno schema preciso. Poi lo butti, il perché è intuitivo (non conosco nessuno che conservi i “propri” cruciverba).
Forzando forse un po’ la mano si può tracciare una maniera più generale di “pensare”, quella di chi evita accuratamente le domande, o si pone solo quelle che gli fanno comodo, di chi ragiona per schemi che spesso vengono adattati a forza al contesto, di chi passa appena sopra il senso delle cose, senza cercare di approfondirne il significato più profondo. Discorso che vale non solo per chi si trova ad affrontare una crisi (e non ne viene a capo perché pretende che le domande e le risposte possano essere trovate nello spazio di un SMS), ma in genere per chi non è in grado di andare a fondo di una relazione tra persone, preferendo conservarne l’aspetto più superficiale e confortante. Non mi compete darvi un’interpretazione del carattere di Franco o di Veronica, perché cadrei nel campo di quella filosofia spicciola da quelli che “se sogni serpenti sono simboli fallici, lo ha detto Freud” (in realtà l’hanno letto su Focus), categoria che rientra perfettamente tra i maniaci del cruciverba. Diciamo semplicemente che forse né Franco, né Veronica si pongono le domande giuste prima di comunicare: la scrittura frenetica è indice di confusione (ci vogliono le idee chiare per parlare dei propri sentimenti per iscritto, anche se scrivere è un’ottima maniera per radunare le idee, e in questo Veronica si rivela molto concreta).
Forse se ne pongono troppo poche, forse troppe e sbagliate. Forse non si pongono il quesito fondamentale, che è quello relativo all’altro da noi. Insomma, conclusione un po’ banale, ma che fa parte della mia concezione della vita di relazione, è che in realtà le persone siano poli opposti su una linea e che la qualità della relazione sia legata all’individuazione del punto d’equilibrio. Chiaramente, i problemi sono legati al fatto che raramente esiste un punto d’equilibrio equidistante, anzi in genere questo si sposta da una parte all’altra come farebbe un oggetto posto su un piano che si inclina prima in una direzione, poi in un’altra (personalmente, sono convinto che tutte le relazioni si basino su schemi asimmetrici). Il movimento del centro d’equilibrio è legato al “peso” che assumono le persone ai poli opposti, e viene raggiunto attraverso una continua negoziazione. Questo schema, però, non funziona nel caso in cui la comunicazione tra i due poli si interrompa e le due persone rimangano separate. In questo caso non c’è alcun punto d’equilibrio, o l’equilibrio si è rotto. Crisi, per me, significa rottura di un equilibrio e ricerca di un nuovo equilibrio. Ed è la ricerca, più che la rottura, che può diventare un interessante terreno d’indagine. In definitiva, di questa trama non mi interessa tanto capire cosa ha prodotto la crisi, quanto osservare il modo in cui i protagonisti si mettono alla ricerca di un nuovo equilibrio nella loro relazione. Il che avviene, appunto, attraverso la ricerca di un modo di comunicare. Mi sembra, insomma, che più che la storia di una crisi sia la storia di due persone che
cercano disperatamente di riprendere il loro posto in un rapporto che è fallito. Uno in Più è l’elemento che destabilizza l’equilibrio e a cui si deve trovare un sistemazione tale da riportare la situazione in stato di quiete. Solo concependosi come parte di un sistema di contrappesi (in questo consiste quella che chiamo la ricerca di una sintesi) si produce il Noi.

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