giovedì 30 settembre 2004

"Dopochi"

recensione a un corto di Paolo Rossi e Alberto Gambato

Questa non è una lettura interpretativa o una critica del cortometraggio. Anche se un commento sui "contenuti" - e quindi un'interpretazione, dato che i contenuti vanno interpretati - l'ho voluto aggiungere. Quanto alla critica, finirei per dire che il corto è bello (lo è), mentre dovrei dire che gli autori sono stati bravi. Ho solo voluto mettere insieme un po' di idee (spero con una loro coerenza) e mi è parso carino farvele conoscere, dato che riguardano la vostra opera.



A dispetto dei simboli che conteneva (e delle tremila interpretazioni che si potevano farne e sono state fatte), a me è sembrata un'opera piuttosto narrativa. Più narrativa di Velleità, direi. La trama c'è, è consistente; quel che di "incomprensibile" rimane è la ciclicità, ma questo è solamente perchè non abbiamo esperienza di un tempo che si avvita su se stesso... cose da niente. E' divertente questo trucchetto del finale che riprende l'inizio (l'ho usato anch'io, in un mio racconto, ve lo farò avere), perchè disorienta le persone, che si fanno un sacco di domande inutili: il paradosso si capisce per quel che è e punto, come il surreale.
Insomma, il "significato dell'opera", per quanto mi riguarda, è semplicemente nella sua struttura, non nei simboli. Struttura a cerchio e struttura a fasi (trifasica). Spariamola grossa: trifasica come nascita, vita e morte e circolare come rinascita, ri-vita e ri-morte e da capo. Non fraintendetemi: non è questa l'interpretazione che intendo dare. Semmai, mi va di sottolineare come nel gioco delle suggestioni entrino sempre in scena degli archetipi, prima ancora che delle interpretazioni. Anche l'uso del simbolo scatena gli archetipi, anche se la sua funzione mi è parsa più che altro di sintesi, condensazione di elementi narrativi: la porta (il limen), il cibo, il rigetto del medesimo, il colore nero...
Il nero, che voi usate come sintesi del nulla, mi suggerisce qualcosa di leggermente diverso, la non-spazialità o spazialità indefinita della dimensione del sogno. Non il vuoto, ma uno spazio che non esiste perchè non è funzionale alla storia. Il sogno è narrativo, solo alcuni elementi rimangono definiti, altri sono vacui, inessenziali, stanno sullo sfondo o scompaiono altrove. Anche qui, non fraintendete: voglio semplicemente dire che la dimensione del sogno, come luogo di una narrativa fatta di sintesi di significati, è adatta a descrivere questa storia. Per il resto, non è necessario perdersi troppo nei perchè.
Perchè la porta? Perchè scandisce un inizio o un passaggio da una condizione all'altra (rito liminare). Perchè il vomito? Perchè segna la circolarità/incrocio degli eventi narrati: una donna ingurgita il cibo da una parte e l'altra lo rigurgita dall'altra parte e viceversa. Adesso, ahimè, i discorsi sul contenuto. Qual'è il problema nei rapporti tra le persone? Cosa limita il nostro rapportarci con l'Altro? Dal cortometraggio sembra trasparire un problema di comunicazione tra le due protagoniste. Una parla, alza la voce, strepita, urla; l'altra è inerte, probabilmente neppure in gradi di recepire. E' la  comunicazione il nodo cruciale della relazione? Non credo. Considerata come interazione, la comunicazione è la struttura, non il nocciolo della relazione. Come scambio (verbale, gestuale, fisico) è un medium, di sicuro non un obiettivo. Semmai è un obiettivo di passaggio, uno di quegli inghippi che non funzionano bene e bisogna risolvere per andare avanti. Ma il Significato della relazione sta ben più avanti. Io credo che il Fine, e ciò che viene a mancare realmente, sia il raggiungimento o, meglio, la
produzione di una sintesi. Se la comunicazione fallisce è perchè questa sintesi non è (ancora?) realizzata e i prendenti parte alla tentata relazione rimangono atomizzati, indipendenti o, al massimo, parassiti l'uno dell'altro.
Contestualizzando questa ipotesi in Dopochi, le due protagoniste, che pure si assomigliano, vivono la stessa esperienza e attraversano le stesse porte, si confrontano come due specchi uno di fronte all'altro (generando, appunto, l'infinito circolare). La sintesi finale delle loro due esistenze romperebbe il cerchio. Ma, appunto, nel cortometraggio non ci può essere una sintesi, perchè la sua struttura ciclica non la prevede. Le due donne, presumo, rimarranno eternamente l'una lo specchio dell'altra.

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