giovedì 10 dicembre 2009

In Polesine manca solo l'atomo

pubblicato su www.estnord.it

Sarà il Polesine ad ospitare una delle centrali nucleari che il ministro Scajola sogna di costruire dal 2020? E’ solo un’ipotesi, rilanciata oggi dal Corriere della Sera, ma una cosa almeno è certa: ogni volta che si fanno congetture sulla localizzazione dei futuri impianti atomici, la provincia di Rovigo ha il suo posto nella lista. Alcuni anni fa si era espresso favorevolmente l’allora presidente di Confindustria Rovigo, Antonio Costato, ora vicepresidente nazionale, con delega proprio all’energia.

In tempi più recenti anche il presidente della Regione Veneto, Giancarlo Galan, ha dato il proprio assenso all’ipotesi di una centrale nella sua regione. E una delle candidature di spicco era proprio l’area che oggi ospita il controverso impianto termoelettrico di Polesine Camerini, per cui nelle prossime settimane dovrebbe essere autorizzata [salvo sorprese] la riconversione a carbone. La candidatura, però, sembra tutt’altro che motivata dal punto di vista tecnico e i fattori contrari non sono pochi, a partire dalla fragilità del terreno alluvionale del Polesine, fino al calo della portata del fiume Po negli ultimi anni. Allora perché, ogni volta che riaffiora l’argomento, si propone la provincia di Rovigo? Forse perché la fascia
tra Adige e Po è l’ultimo brandello di territorio veneto ancora non soffocato da grandi insediamenti industriali,  aree commerciali e grandi infrastrutture. Anche se ci si sta mettendo al pari, con l’arrivo del primo rigassificatore off shore italiano, un mostro di cemento alto come un palazzo di quindici piani, che galleggia nel mezzo del parco naturale del Delta del Po, e con il prossimo via libera a grandi e piccole infrastrutture, tra cui spiccano il tratto sud della Valdastico, l’autostrada Nogara-Mare e la nuova Romea Commerciale.

Ma è proprio sul fronte energetico che il piano di «colonizzazione» della provincia più meridionale del Veneto appare lampante: in meno di 1.800 chilometri quadrati si contano già ventotto impianti energetici, tra esistenti e autorizzati. Ce n’è per tutti i gusti: oltre alla già citata centrale Enel nel comune di Porto Tolle, la mappa mostra dieci impianti a biogas, sei a metano, quattro grandi impianti fotovoltaici [di cui quello di Canaro, che si candida a essere il più grande
d’Europa], due centrali a bio­massa legnosa e due alimentate a olio vege­tale, un impianto che bru­cia pulper, cioè scarti di una cartiera, due a biomasse «ibridi» [abbinato a metano, uno, e a energia solare, l’altro].
Intanto negli ultimi anni la Provincia ha promosso progetti per dotare i comuni e i privati di impianti fotovoltaici,
mentre stanno nascendo i primi gruppi di acquisto solari. Ma quello che manca è un piano energetico che dia un senso a tanta produzione di energia. Per la verità un documento di questo tipo esiste: l’ha elaborato da tempo la Provincia di Rovigo, che però non può applicarlo.
La legge Bassanini del 1997 mette nelle mani delle province questa competenza, a patto però che la Regione abbia
elaborato un proprio piano energetico. Il Veneto un piano energetico non ce l’ha, quindi la facoltà di autorizzare le centrali rimane a Venezia, che dà il via libera a ogni sorta di piccolo impianto, scavalcando le autonomie locali. Poco importa che la concentrazione di tante piccole fonti di emissioni rilascerà nell’atmosfera una quantità di anidride carbonica cinque volte superiore al dato medio pro capite nazionale e che attorno al Polesine esistano già almeno nove impianti inquinanti, che peggiorano ulteriormente la già precaria qualità dell’aria.

Senza un piano energetico, poi, anche gli impianti «verdi» rischiano di non essere tali. Le centrali a biomasse, ad esempio, hanno senso se sfruttano produzioni locali. Ma se non c’è combustibile a sufficienza nel territorio, finiranno per bruciare olio di palma o magari rifiuti. Nell’anarchia degli insediamenti, del resto, c’è spazio per ogni follia. All’appello mancava solo l’atomo.

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