giovedì 11 novembre 2010

E pensare che una volta qui era tutto Rowoodstock

Mi diceva un amico questa estate: quest'anno fanno il Deltablues con un mese di ritardo e in versione ridotta (per non dire dimessa) e nessuno se n'è accorto? Adesso arriva anche Rowoodstock (anzi, RE-Woodstock), in novembre, cioè in ritardo di due mesi rispetto al solito (e amen), ma soprattutto in versione fortemente ridimensionata: un solo giorno dedicato solo alla musica, per un festival che "ai bei tempi" proponeva un'intera settimana di eventi artistici.
Bella edizione, comunque: chi ha suonato ha dato il meglio di sè. Ma forse anche questo faceva parte di una sensazione complessiva di essere arrivati al gran finale. L'ultima edizione di Rowoodstock, che arriva in versione ristretta dopo un'estate di eventi mondani organizzati dal Comune per i giovani con tutt'altro stile e dispendio di risorse, non poteva che tenersi al Teatro Studio, cioè vicino alle macerie dell'ex centro sociale Eternit, nato negli stessi anni e morto molto prima, nella stessa epoca in cui si massacrava il Festival Opera Prima organizzato dal Teatro del Lemming, che gestisce - e siamo a capo - il Teatro Studio. Tanti saluti.

Non sono uno che si attacca al passato a tutti i costi, ma quando si perdono delle esperienze è bene almeno essere consci del significato che avevano: Rowoodstock aveva senso perchè proponeva, lo dico con una frase trita e ritrita, un festival organizzato non solo per i giovani, ma dai giovani stessi, cioè un'esperienza di partecipazione. I concerti in piazza di questa estate faranno anche più pubblico, ma non sono la stessa cosa. Del resto, la sfida più difficile, per RoART come per molte altre realtà, è proprio incentivare la partecipazione. Insomma, se Rowoodstock muore non è perchè RoART abbia "lavorato" male. Non è nemmeno perchè il Comune, cosa del resto piuttosto evidente, non ci crede più, anche se è di fatto l'unico titolare del "brand". 
E' che al festival dei giovani i giovani ormai partecipano pochissimo. Rowoodstock è da anni  un punto di riferimento per quelli della mia generazione: un luogo in cui incontrarsi, ascoltare i propri amici suonare, ritrovare persone che non vedevi da un pezzo e accorgerti dell'assenza di altre persone che di solito non perdevano un'edizione. Solo che così rischia di diventare davvero "i ruggenti anni Duemila" (o al più Novanta), l'operazione nostalgia di un gruppo di giovani che oggi hanno più di trent'anni. Il che non è necessariamente un male, ma allora occorre chiedersi quale tra queste due piste imboccare. Una è relativamente facile: possiamo tenerci il nostro Rowoodstock, all'insegna dei "ruggenti anni Duemila". Anche noi abbiamo bisogno del nostro spazio, perchè no? 
La seconda strada passa per la partecipazione ("il festival dei giovani per i giovani"): insomma, facciamo tornare il festival ai giovani, anche se non sarà più "quello di una volta", fatto come lo facevamo noi. E' la strada più difficile e che probabilmente dà i risultati più modesti in termini numerici, ma RoART qualche idea ce l'ha. Si vedrà.
RoART quest'anno ha scelto una formula (e una promozione) interamente centrata sul messaggio del tornare indietro. Festival ridotto solo alla musica, come nel '96, con i vecchi gruppi sul palco. Con la differenza che almeno una volta si suonava al Teatro Duomo, in pieno centro, e non nell'hinterland, tra il cimitero e i ruderi del centro sociale. Speriamo che questo guardare indietro non sia il famoso "rivedere tutta la propria vita in pochi secondi". 
Una nota di speranza. Qualche anno fa ad ammazzare Rowoodstock era stata la giunta di centrodestra di Paolo Avezzù, quando il festival era gestito direttamente dal Comune. Saltò un'edizione, poi nacque RoART, che prese in mano il Festival e lanciò lo slogan funereo e ottimistico "Rowoodstock RIP-Arte". Nonostante tutto, il festival allora era un elemento di spicco delle politiche giovanili (tant'è che fu strumentalizzato in ogni modo durante la campagna elettorale). Poi venne l'era Merchiori e per alcuni anni fu il festival delle vacche grasse. La mia impressione, però, è che per il Comune si sia sempre trattato, com'è in genere nella filosofia degli enti pubblici, di appaltare un servizio al volontariato per risparmiare. 
Invece per quelli di RoART riappropriarsi del festival è stata un'esperienza di cittadinanza. Se Rowoodstock è arrivato a 15 anni, è perchè all'epoca c'è stato chi ci ha creduto e ha trasmesso l'entusiasmo ad altri. Non è certo negli uffici delle politiche giovanili, che nascono le esperienze che segnano una generazione.

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