Bella edizione, comunque: chi ha suonato ha dato il meglio di sè. Ma forse anche questo faceva parte di una sensazione complessiva di essere arrivati al gran finale. L'ultima edizione di Rowoodstock, che arriva in versione ristretta dopo un'estate di eventi mondani organizzati dal Comune per i giovani con tutt'altro stile e dispendio di risorse, non poteva che tenersi al Teatro Studio, cioè vicino alle macerie dell'ex centro sociale Eternit, nato negli stessi anni e morto molto prima, nella stessa epoca in cui si massacrava il Festival Opera Prima organizzato dal Teatro del Lemming, che gestisce - e siamo a capo - il Teatro Studio. Tanti saluti.
Non
sono uno che si attacca al passato a tutti i costi, ma quando si
perdono delle esperienze è bene almeno essere consci del significato che
avevano: Rowoodstock aveva senso perchè proponeva, lo dico con una
frase trita e ritrita, un festival organizzato non solo per i giovani,
ma dai giovani stessi, cioè un'esperienza di partecipazione. I concerti
in piazza di questa estate faranno anche più pubblico, ma non sono la
stessa cosa. Del resto, la sfida più difficile, per RoART come per molte
altre realtà, è proprio incentivare la partecipazione. Insomma, se
Rowoodstock muore non è perchè RoART abbia "lavorato" male. Non è
nemmeno perchè il Comune, cosa del resto piuttosto evidente, non ci
crede più, anche se è di fatto l'unico titolare del "brand".
E'
che al festival dei giovani i giovani ormai partecipano pochissimo.
Rowoodstock è da anni un punto di riferimento per quelli della mia
generazione: un luogo in cui incontrarsi, ascoltare i propri amici
suonare, ritrovare persone che non vedevi da un pezzo e accorgerti
dell'assenza di altre persone che di solito non perdevano un'edizione.
Solo che così rischia di diventare davvero "i ruggenti anni Duemila" (o
al più Novanta), l'operazione nostalgia di un gruppo di giovani che oggi
hanno più di trent'anni. Il che non è necessariamente un male, ma
allora occorre chiedersi quale tra queste due piste imboccare. Una è
relativamente facile: possiamo tenerci il nostro Rowoodstock,
all'insegna dei "ruggenti anni Duemila". Anche noi abbiamo bisogno del
nostro spazio, perchè no?
La
seconda strada passa per la partecipazione ("il festival dei giovani
per i giovani"): insomma, facciamo tornare il festival ai giovani, anche
se non sarà più "quello di una volta", fatto come lo facevamo noi. E'
la strada più difficile e che probabilmente dà i risultati più modesti
in termini numerici, ma RoART qualche idea ce l'ha. Si vedrà.
RoART
quest'anno ha scelto una formula (e una promozione) interamente
centrata sul messaggio del tornare indietro. Festival ridotto solo alla
musica, come nel '96, con i vecchi gruppi sul palco. Con la differenza
che almeno una volta si suonava al Teatro Duomo, in pieno centro, e non
nell'hinterland, tra il cimitero e i ruderi del centro sociale. Speriamo
che questo guardare indietro non sia il famoso "rivedere tutta la
propria vita in pochi secondi".
Una nota di speranza.
Qualche anno fa ad ammazzare Rowoodstock era stata la giunta di
centrodestra di Paolo Avezzù, quando il festival era gestito
direttamente dal Comune. Saltò un'edizione, poi nacque RoART, che prese
in mano il Festival e lanciò lo slogan funereo e ottimistico
"Rowoodstock RIP-Arte". Nonostante tutto, il festival allora era un
elemento di spicco delle politiche giovanili (tant'è che fu
strumentalizzato in ogni modo durante la campagna elettorale). Poi venne
l'era Merchiori e per alcuni anni fu il festival delle vacche grasse.
La mia impressione, però, è che per il Comune si sia sempre trattato,
com'è in genere nella filosofia degli enti pubblici, di appaltare un
servizio al volontariato per risparmiare.
Invece
per quelli di RoART riappropriarsi del festival è stata un'esperienza
di cittadinanza. Se Rowoodstock è arrivato a 15 anni, è perchè all'epoca
c'è stato chi ci ha creduto e ha trasmesso l'entusiasmo ad altri. Non è
certo negli uffici delle politiche giovanili, che nascono le esperienze
che segnano una generazione.
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